L’unica, fra quelle presentate, ad essere attribuita al repertorio di interpreti e di compagnie professionistiche è la raccolta giunta a noi sotto il titolo di Ciro Monarca. Delle opere regie. Segnalato per la prima volta da Francesco Brower-De Simone nel 1901, il manoscritto è custodito nella Biblioteca Casanatense di Roma dal 1900 in seguito all’acquisto di Giorgio Barini, compositore e critico musicale maturato poi bibliotecario archivista. A rendere questa raccolta diversa dalle altre non sono soltanto i comici professionisti che ne allestiscono gli scenari (la compagnia composta da Angela Nelli, Leonora Castiglioni, Isabella Cima, Carlo Cantù e Niccolò Zecca porta in scena al Teatro della Dogana nel 1642 lo scenario che apre la raccolta Il medico di suo onore) ma soprattutto la provenienza dei temi che vengono inseriti, trattati e modellati. Si tratta di un gruppo di testi scenici in cui è ormai quasi del tutto scomparsa la commedia per lasciare spazio alla tragedia storica, all’episodio romanzato. Per spiegare come “l’opera regia era appunto la rappresentazione spettacolosa di una vicenda romanzata” Mario Apollonio dedica un intero capitolo nella sua Storia della Commedia dell’Arte: gli scenari di opere regie documentano onestamente e chiaramente questa riduzione del tragico allo spettacoloso; ma quale versione scenica e industrializzata di opera d’arte se ne salva? Inevitabilmente l’opera tragica di tempi lontani, per esempio, si traduce e traducendosi si adatta ai gusti del tempo: anzi, sopravvive –ove non sia presentata ad un uditorio mirabilmente colto – proprio il valore scenico elementare, quel valore che oggi chiamiamo senz’altro cinematografico. La raccolta è interamente basata sul predominio del genere “opera regia”, appunto, dove ogni leggenda e mito trattato trovava corrispondenza nella CdA. Così gli attori dell’Arte che nella commedia erano maschere nell’opera regia venivano ad essere i ruoli di una compagnia, con funzione propria e costante anche se non chiaramente definitiva. È uno stile recitativo che talvolta si sovrappone allo stile dell’opera e lo sforza e che, più spesso, dà uno stile, sia pure convenzionale e primitivo, a una materia favolistica. Si procede a plasmare in serie i più terrificanti avvenimenti. Dove il compromesso fra tipi tradizionali e nuovi personaggi poteva sussistere senza rovinosi urti, troviamo una stesura del tutto conforme alla tradizionale. Quello che colpisce di questa raccolta è il processo creativo che ne è alla base, secondo cui il patrimonio favolistico di respiro europeo viene modellato e adattato alle caratteristiche della Cda perché, come dice Bragaglia nell’introduzione all’opera di A. Perrucci, “il teatro faceva e disfaceva secondo opportunità”. Un argomento veniva preso alla radice e rifatto, complicato e dettagliato all’uso delle Maschere che componevano variamente ciascuna Compagnia. Su quella trama venivano sovrapposte altre dieci file di piccole azioni sollecitate da prestiti d’ogni sorta; e la rappresentazione saltava fuori da sé, accidentale, ma fresca e viva, come vera, tra musiche, cobulte, strane mimiche del corpo, ridicolo di buffi e maschere, e curioso intreccio di dialetti diversi. Un attore spagnolo «detto Adriano» venuto in Italia in quel tempo – nominato dal Perrucci in Dell’Arte rappresentativa Premeditata ed all’Improvviso – non poteva capire come «si potesse fare una commedia col solo concerto di diversi personaggi e disporla in meno d’un’ora». Eppure la rappresentazione sorgeva felicemente! […] Quell’antico spagnolo, vedendo in scena la edizione napoletana d’un soggetto di invenzione castigliana tramutato dalla Commedia dell’Arte e popolato dalle Maschere, faceva fatica a riconoscerlo. C’era restato a pena il grosso canovaccio dei fatti principali – anzi della trovata essenziale della trama. Soltanto questo che la commedia a braccio toglieva in prestito: il pretesto e null’altro. Il gusto della rappresentazione era italiano; e l’intreccio dei fatti stessi, cioè degli incidenti dei particolari dei caratteri, era rinnovato e originale. Se ne era modificato l’intrigo, era stato trasformato il carattere dei personaggi, si era esagerata l’importanza dell’elemento «comico»: così l’argomento era restato uno «spunto» per il soffio trasformatore della recita vissuta all’italiana. Essa si fa interprete del dramma europeo attingendo dal teatro spagnolo (basti pensare a Lope de Vega e Calderon de la Barca) cercando nel materiale favolistico nuova linfa. Questo aspetto è ben rappresentato ad esempio da alcuni canovacci presenti nella raccolta, come il quarto scenario della raccolta Ateista fulminato che sottolinea la volontà di inserire e adattare temi considerati profani e che è un testo ritenuto di grande importanza per lo sviluppo teatrale della leggenda di Don Juan. Un altro scenario che evidenzia questo passaggio di genere è senz’altro Convitato di pietra, con cui la scena si colora di seduzione ed erotismo. A questo proposito M. Apollonio scrive: del resto molto, in questi scenari casanatensi è dovuto ad imitazione. Un identico motivo sostiene, per esempio, due commedie diverse: l’Ateista fulminato e il Convitato di pietra. Nella prima […] il dramma non è certo privo di una sua rude efficacia, di quella contrapposizione per così dire sonora di effetti che tanto piacque ai romantici. E come le intenzioni sono spettacolose, così è pure spettacoloso il susseguirsi delle scene più impensate, il loro turbinare, le rapidissime mutazioni di quadro: benché poi, sia per tener fede alla tremenda ammonizione delle Statue sia per dare anche maggiore velocità all’azione, sia infine per l’influenza della critica classicheggiante, l’autore abbia mantenuta l’unità di tempo. […] Simile a questo Ateista fulminato è il Convitato di Pietra, che ricalca, quasi scena per scena, il celeberrimo Burlador de Sevilla di Tirso de Molina. Ma, come avviene delle riduzioni cinematografiche odierne dei drammi celebri o dei romanzi, la trama è non semplificata, anzi sminuzzata in modo che riesca comprensibile e conseguente e coerente, secondo la logica primitiva di spettatori mal provveduti. Per concludere: dotata di intuizioni proprie e, conseguentemente, di tecnica propria, la Commedia dell’Arte, quando si dà a viver d’imitazione, decade: e venendo meno, in epoca ormai di decadenza, con ingegni fiacchi e inetti, quella mirabile capacità assimilativa dei primi tempi, a contatto con opere rivelatrici di un gagliardo e fresco ingegno, si rivela la maldestra stesura e il goffo ammucchiarsi dei motivi e il grottesco gioco degli spunti comici. Il gioco dell’improvvisazione cede il passo al cambio di genere, che se da un lato mostra come la drammaturgia all’improvviso dei comici si adattasse ad una trasmissione internazionale, dall’altra mostra evidenti carenze di creatività: attingere e non creare. Per questo la Commedia dell’Arte attraverso le opere regie può esser considerata interprete del dramma europeo del cinquecento e del seicento: da un immenso materiale favolistico anche la Commedia dell’Arte attinge come Marlowe e Shakespeare, come Lope de Vega e Calderon de la Barca. Raggiungono, ognuno degli infiniti (i grandissimi che piacquero ai romantici e gli ignoti che, servendo, non curarono che i loro nomi sopravvivessero) altezze disparatissime; ma tutti insieme avverano un’unità di vita teatrale forse più fervida e certo più concorde di quella dell’ottocento europeo: anzi, anche l’ottocento Europeo trasse di lì il gusto della fiaba e dell’avventura. L’opera di Ciro Monarca si presenta differente dalle precedenti anche da un punto di vista esterno: il manoscritto, di mm 229 x 203, è privo di copertina e di pagine introduttive. La cucitura è in nervi singoli, il capitello in fili grezzi, la legatura nuova, in pergamena. La numerazione delle carte è successiva alla stesura del manoscritto in cui la scrittura è di una sola mano fatta eccezione per l’indice delle commedie. La coperta – antica - a parte. Non presenta pagine di presentazione né dell’opera né dell’autore, quasi come se il testo fosse attribuito ad un personaggio non realmente esistito e, pertanto, non vi è traccia né della presentazione di sé né tantomeno di una breve contestualizzazione dell’opera. I personaggi sono presentati in scaletta secondo i differenti ruoli. Al termine dell’elenco di ogni scenario viene realizzato una sorta di schizzo che, nella forma, ricorda un imbuto e che segna la conclusione. La scrittura dei canovacci è ampia e la grafia ordinata: questo aspetto la rende senz’altro più semplice da leggere rispetto alle altre. Il tratto inoltre è molto leggero, al punto che si possono intravedere delle righe su cui l’autore si è basato per scrivere dritto e lineare.